Nella mia esperienza radiofonica, lunga o breve che sia, mi son spesso dovuto confrontare con una percezione soggettiva del mezzo radiofonico. Tanti come noi, che la radio la fanno di mestiere, peccando di quella che molti chiamano autoreferenzialità, si convincono che l’ascolto sia automatico.
Niente di più sbagliato. E questo non è solo l’errore comprensibile del neofita, ma anche una caratteristica di chi trasmette da anni, e proprio per questo dotato, a suo avviso, di una sorta di “licenza poetica”.
Mi permetto di sollevare un problema che, a mio personalissimo parere, sta anche un po’ alla base della diffusa disaffezione del pubblico al mezzo radiofonico: il parlare per se stessi, o forse è meglio dire “a se stessi”.
Mi capita sovente di sentire conduttori che in gergo “si parlano addosso”; sarà per logorrea, sarà per una profonda vanità (a chi non piace sentire la propria voce in cuffia), ma tante volte dimenticano che dall’altra parte della radio c’è un pubblico. Bi-conduzioni in cui gli speaker si parlano tra loro: “Cos’hai fatto ieri sera?” “Sono andato al ristorante…” e via dicendo. Non mi permetto di dettare regole e giudizi sul modo di condurre altrui, ci mancherebbe (prima magari divento un grande nome, poi vediamo), ma credo che, fintanto il colloquio tra due conduttori è fine a se stesso, forse all’ascoltatore non interessa un granché… Cioè, il sapere che stamattina mi prudeva il gomito può far scattare il meccanismo automatico del “chissenefrega”. Lo stesso colloquio, se è finalizzato al far nascere un’emozione, può creare invece un legame che difficilmente si potrà sciogliere… "Un saluto a quelli che stamattina si sono alzati male" detto in 5 secondi, può cementificare molto più di un minuto passato a parlare dei miei pruriti personali.
Insomma, un ascoltatore coinvolto è un ascoltatore conquistato!
Ora scusate, ma vado a grattarmi il gomito ;)
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